Il popolo calabrese esprime, anche nell’abbigliamento, la sua naturale tendenza alla bellezza. I costumi variano da zona a zona, sia nel colore che nelle forme: più austeri quelli maschili, più vivaci quelli femminili, in cui tinte gioiose assumono spesso un valore simbolico.
Per quanto riguarda il costume tradizionale femminile, gli studiosi di folklore fanno una netta differenza tra la Calabria settentrionale, in cui la gonna della donna maritata è di colore rosso, e quella meridionale in cui la gonna delle “pacchiane” è invece azzurra.
A questo proposito scrive il Padula con il suo stile colorito: “Vive la donna sulle montagne? Gonne di colore vermiglio, come i gruppi di lampi che saltellano per le montagne.
Vive presso il mare? Gonna azzurra come gli olivi sotto cui mene la vita.”* (Francesco Angrano “Vita tradizionale dei contadini e pastori calabresi-1963) Il massimo splendore, nei costumi femminili, lo abbiamo nelle colline del Catanzarese (Tiriolo, Settingiano) e nella vasta Piana di Sant’Eufemia (Sembiase, Nicastro ecc.): in essi prevale il rosso che, insieme al verde, al nero, al violetto e al marrone dà colore e vita a corpetti, gonne, camiciole, drappi e scialli.
Abbondano i ricami in oro e le classiche “sannacche” sovraccaricano collo e petto. Sono costumi che, specie tra le donne anziane, si conservano ancora nell’uso quotidiano e, più sontuosamente, anche tra le giovani, nelle festività e in speciali avvenimenti.
Nella zone meridionale della Calabria, invece, il costume è ormai scomparso da moltissimi anni senza lasciare alcuna traccia. Solo in villaggi di montagna alcune vecchiette portano vestiti che hanno in comune con quelli antichi la foggia ma ne differiscono per il colore, che è quasi esclusivamente il nero.
Nel museo del Folklore di Palmi si può osservare un costume ancora in buono stato, la cui preziosità è costituita dalla stoffa damascata di colore azzurro. Quello di Bova si può osservare in un’antica stampa della collezione Natale Zerbi-Bisurgi: la gonna è rossa,arricciata, con un vistoso ricamo dorato al bordo, la camicia bianca con maniche lunghe è incrociata sul davanti sotto il nero bustino di velluti, anch’esso ricamato minutamente ai bordi con filo dorato.
I capelli sono acconciati in una lunga treccia raccolta sulla nuca o sul capo. Anche il costume maschile è ormai scomparso; presenta caratteristiche simili in tutta la regione ma anch’esso è legato alla condizione sociale. Caratteristico è quello del contadino: “u tamarru” indossava una giacca di fustagno nero o di velluto turchino, con bottoni metallici, detta “mariola”:
La camicia era accollata e a larghi risvolti; ad una certa età veniva indossato “u Juppuni”, cioè un panciotto rigidamente abbottonato. I pantaloni erano corti fino al ginocchio, aperti ai lati, e li tratteneva una larga cinta di cuoio detta “curia” alla quale veniva appesa la scure.
Il contadino portava calzettoni di lana grezza e grandi scarpe. In testa aveva la “birritta”, un copricapo di forma piatta e da colore blu, tanto lungo da poter essere ripiegato sulle spalle, ove formava una specie di tasca, in cui erano riposti il fazzoletto e anche i soldi. Il costume del pastore si arricchiva di un giubbotto di pelle di capra, usato per riparasi dal freddo o dal vento.
Ai piedi portava le “calandrelle”, una specie di calzare, fatto di pelle di bue conciata, che, messo sotto pianta, si legava sul dorso del piede con corde di lana che, dal loro incrociarsi, si dicono “crocili”.
La calandrella lasciava nudo il calcagno ed è l’unica calzatura che il bifolco poteva utilizzare, dovendo, per necessità di pascolo del bestiame, arrampicarsi sugli alberi, saltare da ramo a ramo e, a volte, da albero in albero.