Probabilmente non è mai stata fatta un’indagine specifica in merito alla presenza di profughi cretesi nella Calabria ellenofona, ma i dati linguistici, sembrano pienamente suffragarla
Nel corso dei secoli le coste della Calabria ellenofona sono state più volte lambite e attraversate da ondate migratorie di Romei, provenienti da vari luoghi della penisola greca e dai più remoti angoli dell’Oriente bizantino, in seguito ad eventi drammatici, talora catastrofici, che la storiografia ha spesso evidenziato ma non sempre adeguatamente approfondito.
Sono infatti abbastanza noti gli sbarchi a Reggio di greci giunti da Patrasso nell’anno 587, a causa dell’invasione avaro-slava del Peloponneso1; altrettanto documentati sono pure gli arrivi di monaci basiliani nelle impervie e relativamente tranquille selve aspromontane, durante l’Alto Medioevo, sia perché incalzati dagli Arabi, sia perché (in misura minore) irritati dalla crescente propaganda iconoclasta dell’imperatore Leone III Isaurico; inoltre, stando alle cronache successive, viene annotata la presenza nel nostro Meridione di alcune migliaia di prigionieri di guerra che, sotto Ruggero II, a metà del XII sec. furono qui tradotti e deportati da Corinto, Tebe e dall’Attica.
A questi naturalmente vanno aggiunti i flussi di profughi determinati dall’espansionismo ottomano con la presa di Costantinopoli (1453) e, segnatamente, i greci giunti in Calabria dalla città di Corone, dopo la vittoriosa spedizione navale antiturca di Carlo V (1533) che hanno dato vita al paese albanofono di San Demetrio Corone.
I porti di Corone e Modone erano considerati “i due occhi” della Serenissima, da lì assieme alle navi mercantili transitavano tutte le informazioni su quanto avveniva nel Mediterraneo; esse appartenevano alla penisola del Peloponneso, la cosiddetta “Morea” (da cui il cognome “Morace/Moraci”) che includeva anche il Mani (da cui il cognome “Maniace/Maniaci”), una regione montuosa autonoma, che non solo i Veneziani ma perfino i Turchi non riusciranno a conquistare (come il territorio di Sfakià, a Creta). Modone, Corone e Candia sono i tre avamposti della rotta commerciale veneta e della resistenza all’avanzata ottomana.
E infatti, a destare il nostro vivo interesse sono soprattutto le popolazioni provenienti da Creta al termine della conquista della capitale Candia (Heraklio) nel 1669, in una guerra combattuta dalla Grande Porta con straordinario accanimento, metro per metro, per oltre 24 anni; tant’è, che al termine dell’assedio dell’isola che allora era il più importante possedimento d’oltremare di Venezia, su una popolazione di circa 31.000 abitanti, a Candia ne erano rimasti poco più di 4.000 (vale a dire solo il 13%!)2, molti dei quali scelsero indubbiamente come luogo di rifugio la Calabria. Per quanto ne sappiamo, non è mai stata fatta un’indagine specifica in merito alla presenza di profughi cretesi nella Calabria ellenofona, ma i dati linguistici in nostro possesso sembrano pienamente suffragarla.
Ed è proprio dal tragico epilogo della guerra di Candia e dalla fuga in massa dei suoi abitanti che partiremo per sviluppare il nostro discorso sulla presenza di toponimi e antroponimi di origine cretese a Bova che, a nostro avviso, attestano non soltanto il forte valore della filoxenìa greca da noi costantemente tributata ai tanti profughi ellenici, accolti con immutato affetto nella nostra Chora perfino in età moderna, ma danno enorme rilievo alla volontà dei bovesi di commemorare l’eroica resistenza cretese, assegnando ai nuovi arrivati un pezzo ampio del proprio territorio, perciò stesso denominato “Candia”3, adiacente alle porte urbiche del vecchio abitato e confinante con la contrada “Pòlemo”4 , nome che in italiano equivale a “Guerra” (lo ribadiamo, termine già di per sé molto eloquente, specie se accostato al precedente: Pòlemo-Candia). Non è tutto.
Sempre a Bova, in zona rurale non molto distante dai luoghi già menzionati, troviamo il toponimo “Candiano”5 , ossia “abitante di Candia”; lo stesso accade se allarghiamo l’arco delle ricerche: ci accorgiamo che a una ventina di chilometri, in località Cataforìo, esiste il toponimo “Candiòtini”6 e a Catanzaro, trova notevole diffusione anche il cognome “Candigliòta”7, identico per significato a “Candiano”.
Sono solo illazioni le nostre? Prove ex silentio o c’è dell’altro? Riteniamo di sì, molto altro, specialmente se attingiamo al patrimonio letterario dell’oralità bovese. Esaminiamo in sintesi i seguenti elementi:
1) Innanzitutto il canto della Romeopulla, la ragazza romea che non vuole sposare il ragazzo turco, mentre la “cagna madre” fa di tutto per convincerla, finché essa non fugge di casa e si trasforma in una pernice; registrato a Bova e pubblicato nel 1866 dal Comparetti8, esso è totalmente estraneo alla nostra tradizione orale poiché di derivazione panellenica:
O Turco egàpise mia romeopùlla, Il Turco amava una greca fanciulla,
ma i romeopùlla 'en agàpie ton Turco. ma la greca fanciulla non amava il Turco.
I scilla mànati tin eporchinài: La cagna madre la baciava allettandola:
- Pire, jemo, eftùndo celopìdi, - Prendi, figlia mia, questo bel giovane
ti su ferri mati ce chrisomandìli. chè ti porterà vesti e scialli d'oro.
- Mànamu, mànamu ton Turco 'en don perro, - Madre mia, madre mia, il Turco non lo prendo;
ti perdicùddha ghènome, perchè diverrò pernice,
ce ta plaja perro. e andrò raminga pei boschi.
Eftè to mesimèri, Ieri a mezzogiorno,
mò èfighe to peristèri, volò via la colomba,
arotào tin ghitonàmmu: chiedo alla mia vicina:
- ‘Ivrete forci tin perdicàmmu? - Avete forse visto la mia pernice?
- to paràscioguo, to vradi - venerdì verso sera la vidi sul prato,
tin ivra sto olivàdi, con un bel giovanotto,
m’ènan onòmorfo pelicadùci, che mangiava l'erbetta.
pu evòscio to gortùci.
2) Molto più esplicito invece è il canto calabrese in dialetto romanzo “Donna Candia”, dove si narra di una donna bellissima di Catanzaro, rapita da “li Tùrchia cani” - giunti nel porto della suddetta città, travestiti da commercianti di stoffe (amalfitani, in un’altra versione) - che bisogna liberare dietro pagamento di ingente riscatto: aperta metafora di quanto accaduto nella presa di Candia. Leggiamone il contenuto:
- Di duvi siti giùvani? - Di dove siete giovani?
- Simu i Catanzaru - Siamo di Catanzaro
portàmu sita a vìndiri portiamo seta da vendere
d’ogni culuri n’avimu. d’ogni colore ne abbiamo.
- Chiamati a Donna Candia - Chiamate Donna Candia
che solita cumprari. che è abituata a comprare.
La sorella l’ha chiamata La sorella l’ha chiamata
e li turchi si l’hannu piggjiàta. e i turchi se la son pigliata
La portaru in Turchia La portarono in Turchia
duvi stannu li tùrchia cani. dove stanno i turchi cani.
Lu su maritu ricchissimo Suo marito ricchissimo
la jetta a riscattari, andò a riscattarla,
portàu dinari a tùmina portando denari a quintali
vergini a centinara. vergini a centinaia.
- Caru maritu miu - Caro marito mio
non c’esti cchiù chi fari, non c’è più niente da fare,
li dinari perdirai i denari perderai
e a mia non m’amerai. e me non amerai.
- A me fìggjiu Tirdulinu A mio figlio Turdolino
dunàtilu ad allattari, datelo ad allattare,
non ci lu dati a sòrima, non glielo date a mia sorella
a chilla turca cani. a quella turca cane.
3) Il canto recitato sotto forma di filastrocca dai parlanti di Bova, intitolato Maria Middalinì, ritenuto dallo studioso cretese Eratostenis G. Kapsomènos9 una vecchia ninna nanna, identica per forma e contenuto, in tutto e per tutto a quella della sua terra natia in questi primi versi:
O Marìa Middalinì
Po' ciumàse manachì?
“Egò den ciumàme manachì.
Ècho Petro c’ècho Paolo,
c’ècho dòdeca Apostòlu…
Ε, κυρά Μαγδαληνή. Πως κοιμάσαι μοναχή;
Όχι αφέντη μου Χριστέ μου. Δεν κοιμάμε μοναχή.
Έχω Πέτρο. Έχω Παύλο. Έχω Δώδεκα Αποστόλους…
4) Il cognome Dièni10 , presente ancora oggi a Bova, il quale è per noi variante diretta del nome Dighenìs, attraverso il seguente passaggio fonetico: Dighenìs > Dijenìs > Dijèni > Dièni, derivante dall’omonimo eroe acrita, difensore dei confini bizantini, già all’epoca della dominazione araba popolarissimo non solo a Creta ma anche in Calabria, come testimonia una delle rare versioni scritte del racconto, conservata a Grottaferrata (monastero alle porte di Roma, fondato dal monaco calabrese Nilo).
5) Il cognome Casili/Casile, con tutta probabilità forma derivante dalla trascrizione fonetica a caratteri latini dell’eponimo cretese Καζίλης.
Quindi, alla luce delle evidenze linguistiche esaminate, possiamo concludere che un pezzo importante di Candia sopravvive a distanza di secoli anche tra i greci di Calabria e la partenza, per noi calabresi, è spesso un ritorno…
Pasquale Casile
1I. DUJCEF, Cronaca di Monenvasia, Palermo 1976, p. 12.
2B. MUGNAI – A. SECCO, La guerra di Candia (1645-69): assedi e operazioni campali, vol. I, Soldiershop Publishing, Bergamo 2011.
3G. ROHLFS, Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria, Longo Editore, Ravenna 1990, p. 43.
4Ivi, p. 251.
5Ivi, p. 43.
6Ivi, p. 43.
7Ivi, p. 43.
8D. COMPARETTI, Saggi dei dialetti greci dell’Italia meridionale, Forni, Bologna 1976, pp. 38-39, ristampa dell’edizione anastatica di Pisa, 1866.
9E. G. KAPSOMENOS, Interdipendenza tra lingua e cultura nel dialetto greco della Bovesìa calabrese, Ιταλοελληνικά, IV, Napoli 1991-93, pp. 227-44; cfr. anche F. VIOLI, Quaderni di Cultura Grecocalabra, UTE-TEL-B, Bova Marina 2016, pp. 58-67.
10G. ROHLFS, Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria, Longo Editore, Ravenna 1990, p. 43.